Quali sono le leggi e gli strumenti sociali per contrastare la “Sindrome del Bambino Scosso” e le altre forme di maltrattamento minorile? La tecnica “home visiting”: di cosa si tratta ? Quando e a chi è accessibile ? Quali sono gli strumenti per prevenire la violenza su minori ?
“Sindrome del Bambino Scosso” : che cos’è e quali sono le sue conseguenze ?
La “Shaken Baby Syndrome” (SBS) è una forma di maltrattamento minorile che riguarda bambini al di sotto dei due anni di età: i genitori reagiscono violentemente al pianto inconsolabile scuotendoli, con il rischio di provocare traumi cerebrali.
Essa può compromettere la crescita psicomotoria del bambino a seconda della gravità dell’abuso, provocando disturbi dell’apprendimento, dell’attenzione, della memoria e del linguaggio, disabilità fisiche, danni alla vista o cecità, disabilità dell’udito, paralisi cerebrale, epilessia, ritardo mentale. Per ulteriori consigli ai neogenitori si segnala la pagina web della Società italiana di pediatria.
Come si può prevenire la SBS e chi ha il compito di farlo ?
La prevenzione di ogni forma di maltrattamento minorile e della SBS in particolare può avvenire attraverso diversi strumenti, tra cui corsi di formazione per imparare a gestire il pianto dei neonati, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, piani di sostegno per i genitori in difficoltà.
Oltre agli strumenti che la legge ci mette a disposizione, occorre che i Servizi Sociali, che dialogano direttamente con i cittadini, intervengano non solo sulle situazioni di pericolo ormai concretizzato per il bambino vittima di violenza fisica, come la SBS, o psicologica, ma prima ancora, riducendo i fattori familiari di rischio.
L’ “home visiting”, cos’è e come funziona ?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel documento “Preventing child maltreatment: a guide to taking action and generating evidence”, ha proposto ai Servizi Sociali dei vari Paesi, interventi che partano da un inquadramento dei segnali di condotte nocive per lo sviluppo del bambino all’interno delle strutture sanitarie, e proseguano presso le famiglie senza mai interrompere il loro diretto coinvolgimento.
Normalmente, dopo la segnalazione di insegnanti, educatori, personale sanitario o conoscenti per sospetti abusi su un minore, i Servizi territoriali attivano una serie di visite domiciliari (i programmi di cd. “home visiting” svolti da un assistente sociale) per verificare l’esistenza di un clima familiare rischioso per la sua salute. Se lo riscontrano, hanno l’obbligo di sporgere denuncia contro il genitore maltrattante presso la Polizia giudiziaria o ad una Procura per i Minorenni.
Diversamente, quando le persone interessate presentano denuncia, i Servizi Sociali, sollecitati dal Pubblico Ministero per i Minorenni, attivano i colloqui domiciliari con i genitori e con il bambino, contemporaneamente allo svolgimento delle indagini della Polizia giudiziaria, della durata minima di 6 mesi, prorogabili in caso di difficoltà.
L’ “home visiting” spesso è attivato quando la criticità familiare è già in atto e il bambino, in età scolare, ha riportato il suo disagio. Tuttavia, sottolinea l’OMS, in molti casi, in presenza di fattori sociali e psicologici di rischio, le visite domiciliari sono utili prima della nascita del bambino o nei periodi immediatamente successivi, con l’obiettivo principale di valorizzare le capacità genitoriali.
L’“home visiting” preventivo
L’home visiting preventivo agisce affidando ad una équipe multiprofessionale, presente nei consultori familiari, nei percorsi preparto, reparti ospedalieri di ostetricia, di neonatologia e pediatria, reparti di Pronto Soccorso, il compito di individuare i possibili segnali di genitorialità fragile, come povertà, basso livello di istruzione, parto adolescenziale, scarsa integrazione sociale, esperienze di rifiuto, violenza o abuso subiti nell’infanzia, opinioni sulle punizioni corporali come pratiche educative, accettazione della pornografia infantile, disinteresse per lo sviluppo del bambino, monogenitorialità.
Quali sono le fasi dell’ “home visiting” preventivo ?
Gli operatori del Pronto Soccorso, del Consultorio o di un altro presidio ospedaliero segnalano la presenza di una madre/coppia a rischio. Si attiva, dunque, un’équipe composta da un assistente sociale, un educatore professionista e uno psicologo esperto dell’età evolutiva e/o della famiglia, che analizza gli elementi segnalati e formula una prognosi di modificabilità della situazione. Se questa è positiva, i membri scelgono un operatore appositamente formato, che organizza le visite domiciliari e che costruirà un’alleanza con i genitori, nei primi mesi di vita del bambino. Egli diventerà una figura di sostegno al/ai genitore/i, cercando di tirarne fuori il disagio derivante dall’esperienza parentale e da quelle spiacevoli subite nella loro infanzia. Informerà della possibilità di accesso a più dispositivi (sostegno psicologico, gruppi di incontro, ecc) perché l’assenza di una rete multidimensionale che affianchi l’home visiting può pregiudicare la sua efficacia.
All’inizio della visita l’operatore concorda con i genitori il numero di ore, la frequenza settimanale, una durata minima e massima e un codice di comportamento, sintetizzando il tutto in un contratto sottoscritto da entrambi. L’inizio del percorso, perciò, non è imposto dai Servizi Sociali, come avviene quando la situazione di maltrattamenti è già stata conclamata, ma proposto ai genitori, concordando le modalità di svolgimento e tenendo conto del grado di disponibilità alla collaborazione. Qualunque decisione presa o difficoltà segnalata viene verbalizzata e il breve verbale sarà condiviso con l’équipe multiprofessionale.
Una proposta di legge dell’8 marzo 2017, evidenziava la necessità di un monitoraggio costante del fenomeno, auspicando la costituzione di centri provinciali specializzati, programmi di sensibilizzazione nelle scuole e prevedendo l’uso dell’home visiting per le famiglie con minori di età compresa fra zero e tre anni in cui si ravvisasse un rischio di maltrattamento minorile. Tuttavia, allo stato, tale proposta, non è stata ancora tradotta in legge.
Quali strumenti abbiamo per contrastare il maltrattamento minorile ?
Gli strumenti normativi a disposizione sono le norme del codice penale che puniscono l’abuso dei mezzi di correzione (art. 571) e il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572).
La prima norma è specifica per i minori, poiché la vittima è sottoposta alla potestà genitoriale o affidata ad un tutore per ragioni di istruzione, educazione, formazione o cura.
I maltrattamenti in famiglia, invece, a partire dalla riforma del 2012, più genericamente riguardano i figli ma anche il coniuge, il convivente, i consanguinei, gli affini e persino i domestici che vivono stabilmente nel nucleo, tanto che oggi la giurisprudenza vi fa rientrare anche la cd. violenza assistita subita dal minore che vede il proprio genitore oggetto di vessazioni fisiche o psicologiche.
Come è punita la violenza su minori dal codice penale ?
Mentre l’abuso di mezzi di correzione si ha quando il genitore o l’educatore fa un uso eccessivo di metodi di correzione leciti, ad esempio il rimprovero con tono di voce molto alta, i maltrattamenti in famiglia, reato più grave, si configurano quando sul minore viene utilizzata violenza fisica o psicologica. (Cassazione Penale, 12 settembre 2007, n. 34460). La giurisprudenza, infatti, applicando i principi della Convenzione ONU sui Diritti del Fanciullo, ha più volte ribadito che la violenza fisica o psicologica non costituiscono uno strumento educativo. Ai fini della punibilità ai sensi dell’art. 572 c.p. non rileva lo status di coniuge o convivente abituale, in quanto il vincolo di rispetto reciproco rimane anche dopo la separazione. Non esclude il reato nemmeno la presenza di intervalli di “calma” anche prolungata tra un episodio di violenza e l’altro, purchè l’intento sistematico di sopraffare la vittima resti continuo.
La pena base per il reato di maltrattamenti in famiglia è quella della reclusione da 2 a 6 anni, da 4 a 9 anni se dal fatto deriva una lesione grave, da 7 a 15 anni in caso di lesione gravissima, da 12 a 24 anni se deriva la morte della vittima.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidate, costituiscono il reato di maltrattamenti una serie di atti vessatori e oppressivi reiterati nel tempo, che non solo producono alla vittima una notevole sofferenza fisica o morale, ma pregiudicano il pieno sviluppo della sua personalità.
Le bambine e i bambini che subiscono violenza in famiglia sono circa 1600 ogni anno e quasi 100.000 sono quelli in carico ai Servizi Sociali, che tuttavia continuano ad intervenire solo quando i bambini sono già cresciuti, evidenziando che c’è ancora troppo poca attenzione all’aspetto preventivo di questo spiacevole fenomeno.
Sostenere i genitori senza sostituirsi, correggere senza giudicare, instaurare una relazione di fiducia ma allo stesso tempo salvaguardare l’autorevolezza professionale è da sempre la chiave dell’attività dei Servizi Sociali italiani, ma è molto importante anche evitare che l’isolamento e il rischio sociale in cui alcune famiglie si trovano possano evolversi in comportamenti abusanti verso i figli minori. Prevenire la violenza domestica e il maltrattamento minorile si può ed è meglio che curare.
Matilde Mazzeo
dott.ssa in Giurisprudenza